La scienza della meccanica nel Cinquecento


Il termine macchina deriva dal greco μηχανή e indicava originariamente il risultato di un’azione sorprendente e non prevedibile che permetteva di volgere a proprio vantaggio una situazione difficile. Il termine macchina poteva anche indicare semplicemente uno strumento che permetteva di superare le difficoltà. Nel corso degli anni il termine “macchina” designerà soprattutto quegli strumenti usati in ambito edilizio, militare, teatrale e per divertire le corti. Vitruvio nel Capitolo I del Libro X del De Architectura scrive che la macchina è un insieme continuo di materiali avente una capacità molto grande di muovere pesi. Sempre nel Capitolo I, Vitruvio distingue le macchine in base al loro funzionamento: le macchine per alzare, le macchine che funzionano mediante la pressione dell’aria, dell’acqua e del vapore e le macchine per tirare.

La prima opera in cui viene data una trattazione geometrica della meccanica è lo scritto Μηχανικά (tradotto in latino come Quaestiones Mechanicae). Secondo l’autore delle Quaestiones Mechanicae (d’ora in poi Questioni meccaniche), i movimenti meccanici possono essere ridotti alle proprietà del cerchio. Nell’incipit l’autore illustra il significato di “meccanica”:

Oggetto del nostro stupore sono i fenomeni che accadono normalmente in natura e di cui ignoriamo la causa, e i fenomeni contrari, dovuti ad abilità e a interventi dell’uomo per suo proprio beneficio. La natura opera spesso in contrasto con il nostro vantaggio, perché il suo corso è sempre lo stesso, immutabile, mentre è vario e di volta in volta mutevole ciò che è utile per noi. Così, quando bisogna agire violando la natura, la difficoltà ci imbarazza e richiede una specifica abilità: quella particolare abilità che ci soccorre, davanti alle difficoltà di questo genere, noi la chiamiamo per questo mechane [1].

Le Questioni meccaniche contengono una trattazione geometrica della meccanica sotto forma di problemi e possibili soluzioni. I temi affrontati nell’opera riguardano numerosi aspetti della meccanica, tra cui il funzionamento delle macchine semplici, la spiegazione del modo di agire di alcuni strumenti nautici e di uso comune, problemi in ambito architettonico, il moto dei proietti, la modalità di distribuzione dei pesi e alcuni paradossi.

Le Questioni meccaniche sono state a lungo attribuite ad Aristotele, tuttavia attualmente sembra prevalere l’opinione secondo cui l’opera dovette essere invece prodotta nell’ambito della scuola aristotelica. In ogni caso, nel Rinascimento la possibile attribuzione ad Aristotele rendeva l’opera meritevole di essere studiata, spiegata e tradotta [2]. Nella grande stagione della restaurazione della letteratura matematica greco-ellenistica, il trattato aristotelico fu tra i testi maggiormente commentati, soprattutto per l’interesse pratico che del suo contenuto. Ciò permise al trattato di circolare velocemente, anche tra coloro maggiormente interessati alle possibili applicazioni nei cantieri. Le prime volgarizzazioni del testo permisero anche a chi aveva poca dimestichezza con la lingua latina di confrontarsi con l’opera e di sperimentare il contenuto teorico nell’attività pratica. La diffusione dei trattati di meccanica tra gli architetti, capitani e costruttori è uno degli elementi che possiamo collocare alla base della rivoluzione scientifica, in quanto è nei cantieri che nel Cinquecento avviene naturalmente l’incontro e lo scontro tra teoria e prassi. Incontro perché avviene una prima messa a confronto delle due tradizioni culturali. Scontro perché all’epoca tra teoria e prassi non vi era un sistematico accordo. A volte l’applicazione pratica dei principi geometrici mostrava l’inadeguatezza di una base teorica ancora priva di alcune conquiste concettuali che avverranno solo successivamente (come, ad esempio, il concetto di attrito). Queste lacune teoriche rendevano i principi teorici molto meno attendibili e scarsamente utilizzabili rispetto all’esperienza maturata nei cantieri o nelle attività professionali. In aggiunta l’inappropriatezza degli strumenti tecnici, tutti diversi tra loro e poco precisi, rendeva sterile la messa in atto della teoria. Ad esempio, quando in fase di preparazione della strategia militare si doveva calcolare la gittata dei propri cannoni o quelli degli avversari, gli architetti militari si affidavano all’esperienza che spesso si rivelava essere più attendibile del calcolo teorico. Il difficile accordo tra previsione teorica e la sua realizzazione pratica era posto in evidenza anche dal confronto tra il comportamento previsto di bilance astratte descritte geometricamente e il comportamento effettivo di bilance fisiche, fatte con un certo materiale, e sottoposte a corpi aventi un certo peso. Spesso la questione veniva giustificata ammettendo la possibilità che le bilance reali, a differenza di quelle ideali, subissero resistenze prodotte dalla loro stessa materia.

Secondo una convinzione diffusa nel Cinquecento, il pesarese Guidobaldo del Monte, allievo dell’urbinate Federico Commandino,  considerava la meccanica come una disciplina intermedia tra le matematiche pure (geometria e aritmetica) e le arti pratiche, in quanto caratterizzata da una parte più speculativa (geometria) e da una parte più “pratica” (in quanto il suo ambito di applicazione sarebbe l’oggetto sensibile). Secondo questo punto di vista, la meccanica era l’ambito in cui la dimostrazione matematica ed esperienza si incontrano. Secondo Guidobaldo, se la teoria meccanica (geometria) non è applicata alle macchine (fisica), allora la meccanica non può essere considerata tale. Secondo Guidobaldo la meccanica è nobile e utile, perché permette di controllare il regno della natura. La meccanica, scrive il pesarese nella lettera dedicatoria posta in apertura al Mechanicorum Liber (Libro delle macchine) e indirizzata al duca urbinate Francesco Maria II della Rovere, aiuta i lavoratori manuali, i costruttori, i marinai, i contadini e molti altri nelle loro attività. Il Mechanicorum Liber (1577) può essere considerato uno tra i più importanti e influenti trattati di meccanica del Cinquecento, tanto da essere immediatamente apprezzato ma anche criticato dai suoi contemporanei. Pochi anni dopo la pubblicazione del trattato uscì la traduzione volgare, Le Mechaniche (1581), curata da Filippo Pigafetta. Successivamente, nel 1615, furono pubblicate a Venezia le seconde edizioni di entrambe le versioni.

All’interno del Mechanicorum Liber Guidobaldo studia il comportamento delle cinque macchine semplici (attingendo pienamente dai frammenti della Meccanica di Erone riportati da Pappo nelle Collezioni Matematiche) e lo riduce a quello della leva. Nella proposizione IV della parte dedica alla bilancia introduce un tipo di equilibrio che troviamo ancora oggi nei manuali di scuola: l’equilibrio indifferente. Nel Mechanicorum Liber Guidobaldo usa le nozioni di baricentro e di leva per elaborare schemi geometrici delle macchine, al fine di stabilire le proporzioni geometriche tra forze e pesi applicati. Possiamo definire il Mechanicorum Liber come una sintesi di interessi eterogenei in cui convergono, in primo luogo, elementi ascrivibili alla letteratura matematica antica appresa da Guidobaldo grazie alla frequentazione del circolo di studio avviato da Federico Commandino. Tra i molti testi che fanno da sfondo al trattato, rivestono un ruolo strategico gli Elementi di Euclide, i trattati di Archimede (in particolare Sull’equilibrio dei piani, di cui curerà una parafrasi nel 1588), il Liber de centro gravitatis solidorum scritto da Commandino con l’intenzione di recuperare ex novo un trattato perduto di Archimede, le Collezioni Matematiche di Pappo (il Libro VIII contiene la meccanica di Erone), il Sul cielo, la Fisica e i Problemi meccanici di Aristotele. In secondo luogo, nel Mechanicorum Liber entra la letteratura medieval-rinascimentale di indirizzo meccanico, come i Quesiti et inventioni diverse di Tartaglia e i trattati sulla scienza dei pesi di Gerolamo Cardano e di Giordano Nemorario.

Nel Mechanicorum Liber, Guidobaldo non delinea solo le caratteristiche tecniche di una nuova meccanica fondata su principi geometrici, ma presenta la sua teoria meccanica innanzitutto come affidabile, rivendicando la base sperimentale di tutti i teoremi inseriti. Mediante l’opera è possibile ricostruire la cosiddetta controversia sulle condizioni di equilibrio di una leva, dibattito che ha fortemente coinvolto i maggiori matematici del tempo. In sostanza il Mechanicorum Liber contiene un nuovo modo di riflettere sulla macchine, dove matematica antica, tecnologia, fisica strumentale e istanze propagandistiche si intrecciano.

Secondo gli studiosi del tempo, la meccanica non aveva la sola capacità di aiutare a controllare la natura e di dirigerla verso un certo scopo prestabilito, ma, come Guidobaldo scriverà nella parafrasi Sull’equilibrio dei piani di Archimede pubblicata nel 1588, la meccanica era anche quel mirabile artificio mediante cui la natura riusciva a superare se stessa. Nella prefazione al trattato De Cochlea, pubblicato postumo nel 1615, del Monte rimarcherà di nuovo la “naturalità” dell’azione meccanica. La coclea è uno di quei congegni meccanici che evidenzia tutta la paradossalità del binomio arte-natura: l’innalzamento della materia è provocata da una successione continua di cadute all’interno del condotto elicoidale della vite. 

A quel tempo però la meccanica non era considerata un’arte nobile, in quanto era una “scienza” di basso livello: essa era la “scienza” dei cantieri, di coloro che non avevano avuto una formazione colta ma tecnica. Tuttavia, nella prefazione scritta da Guidobaldo e in quella scritta da Filippo Pigafetta, curatore della versione volgare del Mechanicorum Liber, emerge l’importanza di dare dignità alla meccanica e di preservarla da «certi manipolatori di parole» e da coloro che ritengono «lei essere voce di ingiuria» [3]. 

Nel Discorso di chi traduce sopra le Machine se moventi, inserito come introduzione alla traduzione degli Automati di Erone, il poliedrico urbinate Bernardino Baldi, anch’egli allievo di Commandino, attribuirà la causa di questo disprezzo a due possibili ragioni: o «che, essendo per lo più le persone che v’attendono, plebee, d’animo abietto, mercenarie, e tutte date alla sordidezza del guadagno, le cose trattate ne vengono affette, in un certo modo, e ne perdono quella riputazione che la propria perfettione dovrebbe apportar loro» oppure «che ciò fosse nato dall’errore fatto dalle persone ignoranti, le quali senza distinguer l’Architetto dal lavoratore manuale, hanno dato il nome dell’Architetto al manuale». Sempre nella stessa introduzione, Baldi rileva che chi nel corso del tempo ha impiegato la meccanica solo per l’utile economico e non per l’utile sociale ha cosparso la meccanica di indegnità. Conclude Baldi, la meccanica dovrebbe avere come fine l’utile per la società e il piacere onesto. L’arringa dell’urbinate ha come obiettivo quello di ripristinare l’antica dignità della meccanica e dell’architettura. Per recuperare il loro onore, secondo Baldi bisognava ristabilire la predominanza dell’intelletto sulla manualità, in quanto quest’ultima doveva essere sempre guidata dal sapere e dalla conoscenza [4].

Secondo questa ricostruzione, l’individuazione da parte di Guidobaldo, Pigafetta e Baldi di un nemico da cui preservare la meccanica è funzionale al raggiungimento di due obiettivi, uno diretto e uno più indiretto. Il primo era dare dignità alla meccanica, rivendicandone, quasi esagerando, le sue origini illustri, affinché potesse essere finalmente elevata a scienza di primo livello; il secondo riguardava la necessità di valorizzare, giustificando culturalmente, il proprio ambito di studio, anche rimarcando il poco apprezzamento da parte dei contemporanei nei confronti della meccanica.

L’ultimo esponente della scuola matematica urbinate, Muzio Oddi, è l’emblema della sintesi di teoria e pratica: egli utilizzò la matematica antica e i lavori dei suoi maestri per progettare strumenti, edifici e sistemi di difesa militare.

[1] Aristotele, Meccanica, Ferrini, M. F. (a cura di), Milano, Bompiani, 2010.

[2] Opera pressoché sconosciuta nel Medioevo, i Problemi meccanici nel Rinascimento ebbero un’ampia diffusione. Essi vennero inclusi nel secondo dei cinque volumi del corpus aristotelico greco stampato da Aldo Manuzio tra il 1495 e il 1498. Successivamente seguirono tradizioni e commentari ad opera di Vittor Fausto (1517), Nicolò Leonico Tomeo (1525), Alessandro Piccolomini (1547), Antonio Guarino (1573), Oreste Vannocci Biringucci (1582, traduzione volgare della versione di Piccolomini), Henri de Monanthheuil (1599), Giuseppe Biancani (1615), Bernardino Baldi (1621), Giovanni de Guevara (1627).

[3] Guidobaldo Del Monte, 1577, Mechanicorum Liber, Pisauri, Hieronymum Concordiam, Praefatio; Guidobaldo Del Monte, Le mechaniche dell’illustriss. sig. Guido Vbaldo de’ marchesi Del Monte: tradotte in volgare dal sig. Filippo Pigafetta nelle quali si contiene la vera dottrina di tutti gli istrumenti principali da mouer pesi grandissimi con picciola forza, Venetia, appresso Francesco di Franceschi senese, 1581, Pigafetta Ai Lettori.

[4]Bernardino Baldi, Discorso di chi traduce sopra le machine se moventi., in Di Herone Alessandrino, De Gli Automati, overo Machine Se Moventi, Libri due, Venetia, appresso Girolamo Porro, 1589.

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