Attualmente gli studiosi concordano nell’individuare l’autore degli Elementi non in una singola persona, cioè in Euclide di Alessandria, ma nei suoi allievi, quindi in più autori. L’impalcatura matematico-dimostrativa degli Elementi poggia su 23 definizioni, 5 assiomi e 5 postulati del Libro I. Nel corso del tempo gli Elementi e altre opere attribuibili a Euclide o alla sua scuola furono consultate o copiate in greco o latino con una certa costanza. Ciò evitò la loro dispersione. Nel Trecento le opere di Euclide, in particolare gli Elementi e l’Ottica, circolarono discretamente, oltre che nell’ambiente universitario, anche nelle botteghe e nelle scuole d’abaco. L’Ottica euclidea era impiegata specialmente per studiare la prospettiva, mentre nelle scuole d’abaco gli Elementi erano utilizzati prevalentemente come contenitori di esempi di calcolo per insegnare a far di conto. Se questo primordiale uso permise una buona circolazione degli Elementi e in alcuni casi le prime traduzioni in volgare, era proprio l’ambiente tecnico stesso che tuttavia ne impediva una conoscenza approfondita. I testi venivano solitamente copiati o tradotti in volgare dal maestro, a volte poco abile come traduttore, per utilizzarli come testi di insegnamento; perciò era frequente che potesse incorrere anche in errori e in fraintendimenti. Spesso in ambito abachistico la lettura degli Elementi non andava oltre il IV libro, dal momento che in pochi avevano le competenze per comprendere il contenuto dei libri successivi. In queste scuole gli Elementi non erano impiegati per apprendere la geometria o i procedimenti dimostrativi, ma erano utilizzati come serbatoio da cui estrapolare esempi di uso pratico. Dal momento che, come abbiamo detto, le strategie di insegnamento erano l’emulazione e il rubare con gli occhi, è facile intuire come uno sforzo cognitivo superiore potesse mettere in difficoltà sia gli allievi sia il maestro non avvezzo a certe pratiche.
Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento l’introduzione della stampa contribuì alla veloce diffusione degli Elementi di Euclide, producendo come conseguenza una corsa alla loro emendazione filologica e matematica. Nel 1482 il tipografo tedesco Erhard Ratdolt pubblicò a Venezia la versione di Campano da Novara (1255-1261 circa) degli Elementi di Euclide. Se consideriamo che il primo testo stampato in Italia risale al 1465-1467, la pubblicazione degli Elementi di Euclide rappresentò una delle prime opere a stampa e tra le prime ad indirizzo matematico. L’edizione degli Elementi non fu il primo testo a stampa edito da Ratdolt: egli aveva iniziato la propria attività veneziana pubblicando nel 1476 la seconda edizione del Kalendarium di Regiomontano, libretto in cui venivano riportati i calcoli astronomici per determinare le fasi lunari, le eclissi e gli equinozi.
La caratteristica della versione di Campano era la coerenza matematica, che tuttavia andava a discapito della correttezza filologica. Di contro, nel 1505 Bartolomeo Zamberti, allievo di Giorgio Valla, proponeva una sua versione in cui prediligeva l’aspetto linguistico. Zamberti, affidandosi a uno sconosciuto codice greco, l’unico che aveva a disposizione, dava priorità alla correttezza filologica, senza emendare i passi matematicamente oscuri. Dalla traduzione di Zamberti emergeva una versione degli Elementi molto vicina all’originale, in cui diventava evidente dove fosse la mano dei commentatori e dove quella di Euclide. L’edizione di Zamberti spaccò il mondo dei lettori degli Elementi: alcuni ritenevano si dovesse privilegiare la bontà di un’edizione più filologicamente corretta a danno della coerenza matematica, altri invece sostenevano che si dovesse dare priorità alla coerenza di quest’ultima. Luca Pacioli, profondo conoscitore della lingua latina e richiestissimo maestro d’abaco (era stato chiamato a insegnare in molte scuole, città e comuni, in particolare ricordiamo la prestigiosa scuola di Rialto), nel 1509 pubblicò una versione latina degli Elementi (probabilmente aveva scritto anche una versione in volgare, ora perduta) in cui difendeva l’edizione di Campano dagli attacchi di Zamberti.
Nel 1516 ci fu un tentativo di unire le due versioni: Jacques Lefèvre d’Étaples (Stapulensis) diede alle stampe un’edizione degli Elementi dove si giustapponevano le versioni di Campano e Zamberti nel tentativo di compensare le reciproche manchevolezze. La versione di Lefèvre avrebbe avuto ampio successo, tanto da essere continuamente ristampata fino al 1558 e da far passare inosservata l’Editio princeps del 1533 di Gryneus.
Una menzione particolare merita l’edizione degli Elementi di Euclide di Niccolò Tartaglia, pubblicata nel 1543 da Roffinelli. L’edizione di Tartaglia è molto importante per due aspetti: in primo luogo, essa era la prima versione a stampa degli Elementi di Euclide in volgare e, in secondo luogo, insieme alla versione latina di Archimede, uscita nello stesso anno e curata dallo stesso editore, andava a comporre la propaganda in favore dell’abilità umanistica da parte dei pratici. Per la sua edizione usò come base Campano e lo corresse usando sia la traduzione di Zamberti sia la propria esperienza come maestro d’abaco.
Il processo di correzione e di restaurazione, giocato principalmente su due filoni quasi paralleli, quello matematico e quello filologico, come era accaduto con Archimede, si concluse nel 1572 con la versione di Federico Commandino. Commandino aveva intrapreso la traduzione di Euclide su indicazione del duca Francesco Maria II della Rovere, il quale lamentava errori di traduzione, di stampa e di costruzione delle figure. Commandino basò la sua traduzione latina degli Elementi di Euclide su alcuni codici greci, tuttora sconosciuti, e sull’Editio princeps pubblicata nel 1533. Commandino usò inoltre il Commento di Proclo nella versione di Francesco Barozzi. Stranamente l’urbinate non usò alcuni tra i codici più antichi conservati presso la biblioteca urbinate (come ad esempio BAV, Vat. Gr. 190). Commandino non si limitò all’emendazione e alla ricostruzione della veste matematica dell’opera euclidea, ma perfezionò anche le notizie storiche sull’autore e sulla composizione degli Elementi. I contemporanei di Commandino pensavano che Euclide fosse Euclide di Megara, famoso allievo di Platone. Il matematico urbinate aveva invece capito, sulla base del bagaglio di conoscenze possedute all’epoca dal matematico greco e dal fatto che venisse citato Aristotele, che fosse opportuno collocare l’autore degli Elementi più avanti di circa un secolo. Inoltre, Commandino attribuì i primi tredici libri a Euclide e l’inizio del quattordicesimo e l’inizio del quindicesimo a Ipsicle Alessandrino. Nel tempo i filologi collocarono la composizione degli Elementi in un periodo più dilatato e assegnarono i primi tredici libri non a Euclide ma alla scuola di Euclide, il quattordicesimo libro a Ipsicle e il quindicesimo libro a Isidoro di Mileto. Il grande merito di Commandino è quello di aver ristabilito un’adeguata coerenza matematica interna e un’ottima veste letteraria a un testo che si presentava lacerato dalle interpretazioni. L’Euclide latino di Commandino, insieme alla versione degli Elementi di Clavio uscita nel 1574, sarebbe stato un testo di riferimento sul quale si formarono le successive generazioni di studiosi.
Nel 1575 uscì la versione volgare degli Elementi, stampata nella sua casa a Urbino e a cura del tipografo Domenico Frisolino. La scelta di tradurre gli Elementi latini in volgare rispondeva all’esigenza linguistica da parte di tecnici, di architetti e di curiosi non erano in grado di padroneggiare il latino ma interessati alle questioni contenute [1].
[1] Commandino scrive nella dedica a Ranuccio Farnese posta in apertura del libro Ptolemaei Planisphaerium. Iordani Planisphaerium. Federici Commandini Urbinatis in Ptolemaei Planisphaerium commentarius. In quo universa Scenographices ratio quam brevissime traditur, ac demonstrationibus confirmatur, Venezia, 1558: «Pertinet autem ad eam optices partem, quam veteres scenographicen appellarunt. Nam optice de mathematicorum sententia in tres praecipuas partes dispertitur, hoc est opticen, quae generis nome obtinuit; catoptricen, scenographicen. Haec postrema maximo usui est architectis, cum aedificiorum imagines, aut aliud quidpiam describere volunt». E nella prefazione alle opere di Archimede Commandino scrive (Archimedis opera non nulla, 1558, prefazione): «Quam vero late pateant hae disciplinae; quantas utilitates, et domesticis, et forensibus rebus importent, ex earum divisione apertissime cognoscemus. Siquidem primum vel circa ea versantur, quae quamvis a materia re ipsa separari non possunt: tamen cogitazione, atque intellectione, ut separabilia comprehenduntur: quod genus sunt geometria, et Arithmetice».
Bibliografia: Heath T.L., 1926, The thirteen books of Euclid’s elements, Cambridge, Cambridge University Press; Folkerts, M., 1989, Euclid in medieval Europe, Winnipeg, Man., Canada, Dunellen, U.S.A., The Benjamin catalogue; Gavagna, V., 2009, La tradizione euclidea nel Rinascimento, in Commandino, F., 2009, De gli Elementi di Euclide, edizione anastatica, 1575, Urbino, pp. 1-10, Ulivi, E., 2002, Scuole e maestri d’abaco in italia tra Medioevo e Rinascimento, in Giusti, E. (a cura di), Un ponte sul Mediterraneo. Leonardo Pisano, la scienza araba e la rinascita della matematica in Occidente, Firenze, Polistampa, pp. 121-159.