La matematica nel Quattrocento
Nel Rinascimento la matematica non si presentava come una disciplina facilmente inquadrabile. Essa non coincideva esclusivamente con le arti del quadrivio ma si estendeva anche alle arti tradizionalmente praticate dai cosiddetti tecnici come la prospettiva, la cartografia, l’architettura e la scienza dei pesi[1]. Proprio per la natura eterogenea della matematica, possiamo ritenere improprio parlare di matematica ma, seguendo le definizioni date dai protagonisti del Cinquecento, riteniamo più opportuno parlare di «Discipline Mathematiche».
Il maestro d’abaco bresciano Niccolò Fontana, detto Tartaglia (1499-1557), per esempio, differenziava le pure matematiche (o speculative), ossia geometria e aritmetica, dalle matematiche miste (o subalterne), vale a dire da quelle matematiche che, sebbene fossero costituite da una parte più speculativa, erano generalmente impiegate in ambito pratico (per esempio nelle attività di conversione delle monete, nelle costruzioni architettoniche, nel calcolo delle superfici, ecc.). Solitamente la matematica pura, intellettuale e speculativa, era insegnata all’università (specialmente nella Facoltà di medicina). Tale matematica, considerata dotta, riguardava principalmente le arti liberali del quadrivio: musica, geometria, aritmetica e astronomia. L’astronomia coincideva con l’astrologia ed era principalmente insegnata in connessione con la pratica medica, poiché quest’ultima si basava sui calcoli astrologici[2]. Verso la fine del 1400 le università iniziarono ad aprirsi all’insegnamento delle applicazioni tecniche. Un tale rinnovamento era stato richiesto anche dal matematico Johannes Müller da Königsberg detto Regiomontano, il quale durante l’orazione inaugurale del ciclo di letture all’Università di Padova (primavera del 1464) aveva affrontato l’importanza di riconoscere la dignità e l’utilità delle arti matematiche. Proprio in quegli anni il matematico tedesco stava portando avanti un’attività di ampio respiro di riscoperta della letteratura matematica antica.
Le matematiche subalterne alla matematica pura erano insegnate prevalentemente nelle scuole d’abaco e nelle botteghe, luoghi in cui si formavano i futuri artigiani, mercanti e artisti. In questi ambienti la matematica era impiegata principalmente per risolvere problemi pratici e per costruire rappresentazione prospettica. A quel tempo la formazione degli artisti, artigiani e mercanti passava solitamente attraverso tre stadi: 1) fino ai circa10 anni di età l’allievo frequentava la scuola elementare per imparare a leggere e a scrivere; 2) poi si iscriveva alla scuola d’abaco per imparare a far di conto, la quale era tendenzialmente a pagamento e durava circa 2-3 anni a seconda delle abilità e della capacità economica dello studente; e, infine, 3) l’apprendistato, che poteva durare dai tre ai sei anni, presso una bottega di un pittore, di un artigiano, di un mercante o al seguito di un bravo architetto militare. Terminata la formazione, il novello artista o il mercante in erba avrebbero potuto intraprendere una propria carriera. L’aspirante architetto sarebbe potuto diventare tale per meriti dimostrati (o presunti) o per promozione sul campo o grazie a un ente che gli conferiva l’incarico di architetto. Questi artisti, architetti, mercanti, che non avevano avuto una preparazione universitaria ma una preparazione incentrata nell’uso della matematica, avrebbero alimentato, grazie alla loro intraprendenza, lo sviluppo della cosiddetta matematica applicata.
Il metodo d’insegnamento in ambiente abachistico era basato essenzialmente sulla memorizzazione delle regole da utilizzare per risolvere casi pratici e specifici. La matematica che veniva insegnata era tratta principalmente dal Liber abbaci (1202) di Leonardo Pisano detto Fibonacci. Le scuole d’abaco favorirono anche una discreta diffusione in volgare dei primi libri degli Elementi di Euclide, soprattutto di quelli da cui si potevano estrapolare esempi di interesse didattico e pratico[3].
Al contrario della matematica dotta, la quale era nobile, intellettuale (profondamente connessa alle filosofie di Platone e Aristotele), insegnata in latino e appresa dai testi scritti, la matematica delle scuole d’abaco era intimamente legata al suo uso pratico, insegnata in volgare e appresa ascoltando e rubando con gli occhi gli insegnamenti del maestro.
Da un punto di vista sociale tra le due “categorie culturali” spesso non vi era stima reciproca. Da una parte, i dotti tendevano a non riconoscere l’importanza dell’uso della matematica nelle attività professionali, accusando i pratici di avere come obiettivo solo il guadagno, di contaminare la purezza della matematica stessa e di anteporre l’efficacia dell’esperienza alla validità della teoria matematica; dall’altra, i tecnici diventavano sempre più consapevoli sia del loro ruolo nella società sia dell’importanza della matematica per le attività pratiche. In più occasioni questi ultimi ribadirono il valore dell’habitus pratico nell’esercizio dell’attività, per esempio, di architetto civile e militare, di stratega militare e di costruttore di strumenti[4].
Lo storico Carlo Maccagni definiva questo dinamico livello culturalmente inferiore, rispetto a quello rappresentato dai professori e dagli accademici, come «strato culturale intermedio»[5]. Tale strato, sebbene caratterizzato da confini labili, si posizionava a un livello intermedio tra gli analfabeti e i letterati in grado di leggere e scrivere in latino e in greco. Lo strato culturale intermedio includeva mercanti, artisti, artigiani e architetti, cioè quelle figure professionali dotate di grandi capacità tecnico-pratiche e che avevano avuto un’istruzione basata sulla frequentazione della scuola d’abaco, dove l’insegnamento avveniva in lingua volgare e mediante la cosiddetta scrittura mercantesca. Nel corso di queste lezioni il maestro non dimostrava o giustificava le sue procedure di calcolo, ma mostrava come usare specifiche regole matematiche per risolvere problemi reali. Dal canto loro, gli allievi ascoltavano e memorizzavano quello che il maestro diceva e rubavano con gli occhi quello che il maestro faceva.
La riscoperta della matematica antica
Tra il Quattrocento e il Cinquecento iniziò una febbricitante riscoperta della matematica antica. Grazie all’appoggio di mecenati disposti ad usare la cultura come strumento di propaganda, di potere e di prestigio, studiosi come Regiomontano, Iacopo da San Cassiano, Giorgio Valla e Bartolomeo Zamberti avviarono un preciso programma di recupero della letteratura matematica antica. Il cardinale Bessarione (1403-1472), bibliofilo e possessore di numerosi codici greci, coinvolse Regiomontano (1436-1476) nell’opera di restaurazione della matematica antica. Negli anni successivi, l’eredità venne raccolta da Giorgio Valla (1447-1500), Bartolomeo Zamberti (1473-1539) e Giovan Battista Memmo (1466-1536), i quali contribuirono fortemente alla diffusione delle opere rispettivamente di Archimede, di Euclide e di Apollonio. A Firenze un personaggio centrale fu Emanuel Chrysoloras (1355-1415), il quale stimolò la riscoperta delle opere greche sia letterarie che matematiche. A Roma un forte impulso venne dato da Nicolò V (1397-1455), il quale fondò l’importante Biblioteca Apostolica Vaticana e si circondò di numerosi umanisti, tra cui l’umanista matematico Jacopo di San Cassiano (1400 circa-1454 circa), uno dei più importanti traduttori di Archimede. Possiamo individuare le prime tracce di restaurazione della matematica antica anche presso l’ambiente viterbese, dove già nel XIII secolo, grazie allo stimolo culturale dovuto al trasferimento temporaneo della corte papale, fu fucina di traduzioni, come quelle realizzate da Guglielmo di Moerbeke sui codici di Archimede.
Sempre in questo periodo inizia a diffondersi in Occidente la stampa a caratteri mobili, la quale diede un forte impulso alla diffusione e alla circolazione delle traduzioni dei testi della matematica antica e dei suoi commenti sia tra i dotti sia tra i pratici, quest’ultimi progressivamente sempre più interessati alle applicazioni pratiche della matematica dei testi.
Tra il Quattrocento e il Cinquecento le cosiddette discipline matematiche iniziarono ad acquisire sempre più valore e importanza sociale, in particolare a seguito della specializzazione delle tecniche, dell’aumentare delle conoscenze scientifiche e della loro applicazione nel contesto bellico, come nella costruzione di armi e di sistemi di difesa.
In questo periodo, grazie al mecenatismo culturale dei Montefeltro (Federico da Montefeltro, duca dal 1444 al 1482, e Guidubaldo da Montefeltro, duca dal 1482 al 1502 e dal 1503 al 1508) e all’officina rappresentata dalla costruzione del Palazzo Ducale, la corte urbinate era vista come uno dei centri più importanti dell’epoca e meta di artisti, tecnici, architetti e traduttori provenienti da ogni luogo. Non era un caso che Baldassarre Castiglione per il Libro del Cortegiano avesse scelto la corte dei Montefeltro in cui ambientare la vita del cortigiano. Tra i numerosi protagonisti del tempo che frequentarono la corte urbinate ricordiamo il cardinale e umanista Bessarione, il pittore matematico Piero della Francesca, l’architetto dalmata Luciano Laurana, l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, il maestro d’abaco Luca Pacioli, l’astrologo-matematico Paolo da Middelburg, il matematico Iacobo da Speyer, lo scultore Ambrogio Barocci, il genio eclettico Leonardo da Vinci e l’architetto e umanista Leon Battista Alberti. Il ducato di Urbino diede anche i natali al pittore Raffaello Sanzio (1483-1520) e all’architetto Donato Bramante (1444-1514). A quel tempo, Urbino era un luogo caratterizzato dalla contaminazione di arte, tecnica, matematica, ingegno e cultura umanistica.
La grande vivacità e la dinamicità culturale che contrassegnarono il ducato di Urbino del Quattrocento furono favorite in particolare dal mecenatismo di Federico da Montefeltro. Federico non fu solo un condottiero, ma anche un uomo sensibile alla cultura umanistica, alla cultura matematica e alle innovazioni tecnologiche in ambito civile e militare. Non è un caso che nel 1475 Federico avesse commissionato a Pedro Berruguete un ritratto in cui egli stesso veniva dipinto, insieme al figlio Guidubaldo, con le armi deposte e assorto nella lettura di un codice antico, ostentando così il suo potere e mostrando il suo rispetto per le lettere antiche, rispetto probabilmente maturato grazie all’educazione impartita dal suo maestro d’infanzia Vittorino da Feltre.
Altro elemento che dimostra l’importanza della cultura per il duca urbinate è la presenza di un’imponente biblioteca all’interno del Palazzo, la quale nacque quasi in concomitanza con la messa in opera dell’edificio. È stato stimato che alla morte di Federico la biblioteca contenesse oltre 900 volumi. Ed è per questo motivo che gli stessi contemporanei la ritenevano una delle più importanti dell’epoca. Allo stesso modo è significativa la conformazione dello studiolo, luogo ricco di giochi prospettici, rappresentazioni di strumenti scientifici e riferimenti a testi dell’antichità. Sulle pareti dello studiolo sono rappresentati i maestri di Federico, sia reali che ideali.
Federico da Montefeltro fu condottiero militare e astuto stratega e, al tempo stesso, ebbe anche profonda sensibilità per la cultura umanistica e per la tradizione matematica antica. La sua vocazione militare unita al rispetto del sapere antico era al tempo impressa sulla facciata esterna del Palazzo Ducale. Su idea di Federico, sulla facciata dal Palazzo vennero scolpiti 72 bassorilievi in pietra, le cosiddette formelle, raffiguranti congegni meccanici, strumenti bellici e trofei. Le formelle, posizionate sulla spalliera del sedile della facciata del Palazzo Ducale, erano proprio per la loro posizione la prima cosa che catturava l’attenzione del passante. Esse, meglio conosciute come Fregio dell’arte della guerra, rappresentavano non solo uno dei primi esempi di comunicazione del potere militare e “tecnologico” mediante rappresentazioni scultoree, ma agivano anche come strumento di divulgazione scientifica.
In questo contesto scientifico-culturale affonda le radici la scuola matematica di Federico Commandino. Commandino e i suoi allievi furono nel Cinquecento i protagonisti di un’importante restaurazione della matematica antica, tra cui le opere di Archimede, di Euclide, di Pappo, di Erone, di Sereno, di Apollonio e di Tolomeo. Attorno a Commandino si radunarono numerosi allievi che avrebbero poi proseguito il recupero dei testi antichi, anche dopo la morte del loro maestro. Tra questi è opportuno citare almeno Guidobaldo del Monte e Bernardino Baldi. L’ultimo esponente di quella che sarà chiamata scuola matematica urbinate è Muzio Oddi, allievo di Guidobaldo del Monte.
Secondo Commandino ha senso recuperare la matematica greco-ellenistica in quanto portatrice di concetti e nozioni utili sia per comprendere i fenomeni meccanici sia per le sue possibili applicazioni in diversi contesti lavorativi, come nell’ambito del fabbricare, del governare e del commerciare. Questi temi vengono toccati anche nell’importante introduzione alla sua traduzione latina e alla sua traduzione volgare degli Elementi di Euclide. Nell’introduzione vengono anche indicati il campo di studio della matematica e il suo oggetto di studio. Seguendo la classica tripartizione della conoscenza già esposta da Proclo, Commandino distingue la matematica dal divino e dalla conoscenza sensibile. Secondo Commandino il divino, che «tanto avanza» rispetto alla altre due, non è spiegabile con le parole; mentre la conoscenza sensibile è intimamente ancorata alla mutevole materia. La matematica è posta in mezzo, «perché se con diligentia si miri la sua conditione si troverà lontana da ogni materia, parte perché pare, che in certo modo le sia congiunta, avenga che senza cotal congiungimento sarebbe all’intelletto nostro per la sua debolezza incomprensibile» [6]. Questa divisione in gradi implica che la matematica sia più certa rispetto alla filosofia naturale, la quale, secondo Commandino, si basa sulla probabilità. L’assegnazione di un ruolo intermedio alla matematica all’interno della gerarchia della conoscenza e la delineazione di una genealogia autorevole hanno l’obiettivo di mostrare la sua dignità e nobiltà.
L’oggetto di studio della matematica viene definito da Commandino sulla base della distinzione delle due tipologie di quantità trattate dalla matematica: la quantità continua e la quantità disgiunta. La continua si divide in mutabile e in non mutabile; mentre la disgiunta in quella che è disgiunta di per sé o rispetto ad altro. La geometria è matematica continua e non mutabile, l’astrologia è continua e mutabile, l’aritmetica è disgiunta di per sé, la musica è disgiunta rispetto ad altro. Secondo Commandino la matematica si occupa sia della quantità continua sia della quantità disgiunta, cioè di quelle quantità che hanno la caratteristica di essere separabili dall’oggetto mediante l’immaginazione (come ad esempio il «diritto», il «curvo», ecc.). Invece, non si occupa di quelle proprietà non separabili dai corpi (come ad esempio il «caldo», il «freddo», ecc.). Entità come punto, retta e cerchio non sono entità né metafisiche né intimamente legate all’oggetto sensibile, ma hanno origine dalla realtà sensibile e possono essere disgiunte grazie all’intelletto e all’immaginazione. Sebbene abbiano una base empirica, precisa Commandino, le matematiche non sono fallaci, come potrebbe essere la nostra conoscenza sensibile. Secondo Commandino la certezza della matematica è tutelata dall’autoevidenza degli assiomi e dal procedimento dimostrativo, il quale, partendo dalle premesse e mediante l’applicazione di regole corrette, garantisce la correttezza dei teoremi.
Secondo Commandino la matematica si può solo occupare dell’aspetto quantitativo dei fenomeni e non della loro essenza o della loro qualità, poiché queste ultime non sono misurabili né quantificabili. Ma come possiamo individuare le proprietà matematiche (geometriche) degli oggetti? Secondo Commandino possiamo farlo compiendo delle astrazioni. Per Commandino le proprietà matematiche degli oggetti sono separabili dalla materia e l’immaginazione è fondamentale per compiere l’estrapolazione della matematica dalla materia sensibile. Grazie all’astrazione compiuta, il matematico, senza toccare la materia, riesce a rispondere a domande del tipo: «che cos’è un triangolo? Che cos’è un cerchio?» Le astrazioni, continua Commandino, non introducono falsità nella geometria, in quanto il processo conoscitivo è tutelato dalla certezza delle dimostrazioni. Queste questioni hanno avuto un ruolo importante nelle riflessioni dei filosofi dall’antichità ai giorni nostri. Porsi delle domande sull’esistenza degli oggetti matematici significa chiedersi se questi facciano invece parte di una natura effettivamente scritta galileianamente in «carattere matematico» oppure se siamo noi che sentiamo la necessità di chiudere i fenomeni naturali in modelli matematici creati da noi stessi. Il mondo ha di per sé un significato matematico o siamo noi che diamo un senso matematico al mondo? Commandino non si era dilungato sulla questione, proponendo immediatamente un’altra divisione delle discipline matematiche, sulla base di quella data da Tartaglia. Secondo l’urbinate le facoltà matematiche si occupano delle cose intelligibili o sensibili. Quelle che si occupano delle cose intelligibili sono l’aritmetica e la geometria; mentre le matematiche che si occupano delle cose sensibili sono l’arte delle macchine, astrologia, ottica, geodesia, canonica, musica e l’arte di fare i conti. Commandino investe la matematica di un ruolo unificatore capace di interconnettere il mondo empirico con il divino. Nella gerarchia della conoscenza, le matematiche possono senza dubbio aiutarci nella comprensione delle cose naturali. Commandino, dopo aver elencato in che modo le professioni fanno uso della matematica e dispiacendosi di dare «cotal macchia a sì liberale et nobile disciplina», mostra l’utilità della matematica in modo da renderla intrigante a chi è più interessato all’utilità pratica e al guadagno che essa può portare, poiché gli uomini «solo per l’utile aprono gli occhi». Affermando che qualsiasi attività professionale e sociale in realtà usufruisce delle matematiche, Commandino intende promuovere e valorizzare l’importanza dell’oggetto del suo lavoro.
La restauratio mathematicorum portata avanti da Commandino e dai suoi allievi deve essere inserita all’interno di una tendenza culturale iniziata anni prima, ma che non aveva ancora prodotto risultati eccellenti, sia dal punto di vista filologico sia dal punto di vista della coerenza del contenuto matematico. Commandino, più di altri, seppe unire nell’opera di restaurazione di testi e procedimenti dimostrativi attenzione filologica e competenza matematica. Guidobaldo, l’allievo più illustre, avrebbe posto la matematica degli antichi (Archimede, Pappo, Euclide, Aristotele, Vitruvio, Tolomeo) alla base del Mechanicorum Liber e dei Prospectivae Libri Sex, opere che avrebbero segnato un’epoca nei rispettivi “ambiti disciplinari”.
Sebbene rivendicassero l’utilità della matematica contenuta nei testi antichi, Commandino e i suoi allievi tradussero principalmente in lingua latina, lingua ostica per molti tecnici del tempo. La scelta di utilizzare il latino è riferibile a un motivo ben preciso: dare dignità alle discipline matematiche. Secondo lo storico e cultore di meccanica urbinate Bernardino Baldi, era necessario ripristinare la dignità delle discipline matematiche, perché certi «vili meccanici» avevano «imbrattato», col loro «sordido» comportamento tutto dedito al guadagno, la purezza delle matematiche [7]. Questa missione poteva essere portata avanti solo scegliendo una lingua nobile in grado di conferire nobiltà anche alle matematiche stesse. Secondo Bernardino Baldi, la matematica considerata di per sé è contemplativa, e per questo nobile e degna, ma se è applicata alla materia allora riesce ad esprimere tutta la sua meraviglia. Infatti, nella prefazione manoscritta alle Vite de’ matematici, pubblicata da Narducci, Baldi scrive che le matematiche sono contemplative «poiché l’oggetto loro per sé stesso è intellettuale e non materiale», ma poco dopo si affretta a chiarire che «se tu cerchi l’opere, applicandole alla materia, ne trarrai meraviglie» [8]. Quindi secondo Baldi le discipline matematiche non dovevano essere avulse da qualsiasi contatto con la materia, ma, al contrario, la mano doveva essere «ministra dell’intelletto». Seguendo il suo maestro Commandino, Baldi ricorda che le discipline matematiche, le quali hanno come oggetto di applicazione il dato sensibile e per questo sono dette anche matematiche subalterne, devono essere considerate degne e nobili al pari della matematica pura, perché le matematiche subalterne sono (o almeno dovrebbero essere) guidate dalle dimostrazioni che avvengono «per forza di ragioni Mathematiche», tanto che «né l’ingegno né le matematiche giouerebbono se bisognando poi uenire a esecutione la mano non fosse atta miniftra dell’intelletto» [9].
1] Tartaglia Niccolò, Nova scientia inventa da Nicolo Tartalea, Vinegia, Stefano da Sabio, 1537
Tartaglia Niccolò, Euclide megarense philosopho: solo introduttore delle scientie mathematice: diligentemente reassettato, et alla integrita ridotto per il degno professore di tal scientie Nicolo Tartalea, brisciano, secondo le due tradottioni: e per commune commodo & utilita di latino in volgar tradotto. Con una ampla espositione dello istesso tradottore di novo aggionta, Venezia, per Venturino Roffinelli ad instantia e requisitione de Guilielmo de Monferra, & de Pietro di Facolo da Vinegia libraro, & de Nicolo Tartaglia brisciano Tradottore, 1543.
[2] Le università di Parigi e Oxford erano famose per gli insegnamenti di teologia, mentre le università italiano erano apprezzate per i corsi di legge e medicina. Il corso di medicina aveva una durata di 5 anni: i primi 2 erano dedicati alla logica e alla filosofia naturale, gli altri 3 alla medicina teorica e pratica. In questi ambiti, la matematica, in particolare gli Elementi di Euclide, la Sphaera di Sacrobosco e Tolomeo, era insegnata in funzione degli studi medici. Tuttavia, la matematica non si configurava sempre come una matematica mistico-astrologica: per esempio la matematica dell’Università di Pisa era più astrologica, mentre a Padova era più tecnica (Crosland, M. (a cura di), The Emergence of science in Western Europe, London, Basingstoke, Macmillan, 1975).
[3] Dei quindici libri che tradizionalmente componevano gli Elementi, attualmente ad Euclide sono stati assegnati i primi tredici. Il quattordicesimo e il quindicesimo sono stati attribuiti rispettivamente a Ipsicle Alessandrino e a Isidoro di Mileto. Invece, nel Cinquecento vi erano diverse interpretazioni: alcuni pensavano che Euclide fosse l’autore di tutti i libri, altri ritenevano che fosse l’autore di alcuni e altri ancora che non fosse l’autore di nessuno. In ambiente abachistico, i teoremi di Euclide erano usati, per esempio, in agrimensura, per dirigere la deviazione del corso dei fiumi e per indirizzare le canalizzazioni.
[4] Maffioli (C. S. Maffioli, Hydraulics in the late Renaissance 1550-1625. Mathematicians’ involvement in hydraulic engineering and the “mathematical architects”, in Duffy, M. C. (a cura di), 2002, Proceedings of the XXth International Congress of History of Science, vol. XVII: Engineering and Engineers, Turnhout, Brepols, pp. 28-37) racconta che nel caso di alcuni settori professionali si assistette a un conflitto tra matematici e pratici: «L’entrata di matematici e filosofi come Castelli e Cabeo all’interno del settore dell’idraulica produsse un avvicinamento di matematica e pratica e un nuovo conflitto tra matematici e pratici». Boyer, invece, non è dello stesso parere. Egli evidenzia che la tesi, per cui nel tardo Medioevo vi fosse una rivalità tra i matematici delle università e quelli delle scuole d’abaco, «sembra avere scarso fondamento», C. B. Boyer, A History of Mathematics, New York, Wiley, 1968, (Storia della matematica, Carugo, A. (trad. it.), Milano, ISEDI, 1976), p. 295.
[5] Carlo Maccagni, Leggere, scrivere e disegnare la “scienza volgare” nel Rinascimento, in «Annali della Scuola normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», ser. 3, vol. 23, fasc. 2 (1993), p. 646: «Riassumendo, lo strato culturale intermedio tra i dotti e gli analfabeti appare caratterizzato dalla capacità di esprimersi nelle forme del volgare parlato sia per mezzo della scrittura, individuata nella mercantesca, sia del disegno, e dal ricorso abituale al procedimento analogico che appare essere la conseguenza tanto del curricolo scolare che dell’apprendistato». Al cosiddetto «strato culturale intermedio» deve essere riferita anche la tradizione manualistica, la quale nel XV secolo ebbe un ruolo di rilievo nella diffusione delle conoscenze soprattutto in ambito abachistico.
[6] Federico Commandino, De gli elementi d’Euclide libri quindici. Con gli scholii antichi. Tradotti prima in lingua latina da M. Federico Commandino da Vrbino, & con commentarij illustrati, et hora d’ordine dell’istesso trasportati nella nostra vulgare, & da lui riueduti, Urbino, in casa di Federico Commandino, appresso Domenico Frisolino, 1575.
[7] Bernardino Baldi,1589, Di Herone Alessandrino, De Gli Automati, overo Machine Se Moventi, Libri due, Venetia, appresso Girolamo Porro.
[8] Enrico Narducci, Vite inedite di matematici italiani scritte da Bernardino Baldi, in «Bullettino di Bibliografia e di Storia delle Scienze Matematiche e Fisiche», Vol. XIX, luglio-novembre 1886, 1887.[9] Bernardino Baldi,1589, Di Herone Alessandrino, De Gli Automati, overo Machine Se Moventi, Libri due, Venetia, appresso Girolamo Porro.